Esperienza (UX) come sistema di fundraising

Esperienza (UX) come sistema di fundraising

Sono ormai più di vent’anni che seguo l’evoluzione del digitale e mi sono sempre occupato di innovazione.

Spesso si fraintende il significato di innovazione e molte volte si fà riverimento esclusivamente alla tecnologia, che certamente ne fa parte, ma che è solo di supporto.

Nel mondo dell’innovazione non conta l’ultimo ritrovato tecnologico, conta la perseveranza e la visione d’insieme.

Per fare innovazione bisogna sfruttare quel che già c’è e adattarlo ad un contesto. L’innovazione è partecipazione e la partecipazione non è il risultato di un’attività, è il pre-requisito perché l’attività riesca. L’innovazione non è un prodotto, non è un oggetto o un software, è cambiare i comportamenti delle persone.

Ascoltati questo intervento di Francesca Folda per capire meglio.

Tutto questo ha mutato le nostre percezioni e diversificato la nostra esperienzialità. Con tutta questa innovazione e il diffondersi di internet, l’esperienza diventa sinonimo di servizio personalizzato e integrazione tra fisico e digitale. Sempre legato al libro di Marco Cordioli: La via del marketing per la trasformazione digitale, di cui riporto alcuni passaggi, voglio fare un ulteriore approfondimento/parallelismo su esperienza e fundraising.

Il termine donor experience porta con sé un bias: vede le persone (attori) solo come donatori (ruolo) in un contesto di necessità/emergenza (ambiente). Così facendo, si perdono di vista altri aspetti slegati dal sostenitore ma che potrebbero essere fattori di blocco o agevolazione delle sue scelte di donazione.

L’esperienza è sempre il risultato di un sistema di interazioni che vedono la partecipazione di diversi attori. Il donatore, certo, ma anche i collaboratori in organizzazione, la loro rete di influenzatori, conoscenti, amici e via dicendo. In una parola: l’ambiente. Oggi il fundraising, come il marketing, è conversazioni: il suo ruolo tenerle vive e vitali.

La conversazione è la materia prima delle esperienze e prende forma quando, nel contesto di un’esperienza, i dati trovano significato. La sfida che si propone non è dunque limitata ad alcune funzioni dell’organizzazione  ma estesa a tutta l’ONP. Ha carattere organizzativo. Coinvolge la formazione, la governance e i processi interni. Solo così si costruirà un sistema di esperienze in grado di creare connessioni, trasmettere valori e raccontare storie.

Il focus sulle esperienze spinge il fundraising a evolvere. Il suo ruolo cambia. Da situazionale a sistemico.

Oggi il fundraising deve essere guidato da modelli di esperienza, da retrospettivo deve diventare predittivo, non attraverso l’osservazione dei dati ma grazie alla loro attivazione utilizzando AI e ML. Le azioni da intraprendere non potranno più essere situazionali e momentanee ma strutturali e orientate alla costruzione di relazioni di lungo periodo. Non frammentate ma integrate e orchestrate da esperienze.

La coscienza di sistema è la consapevolezza che tutte le scelte sono connesse. Un insieme di dipendenze mosso dalla percezione di come l’ambiente e il contesto influenzano l’intera esperienza. In fondo è sempre stato così. Ciò che la trasformazione digitale ha portato è una maggior consapevolezza. Internet ha elevato la visibilità di come gli elementi del sistema siano connessi.

Perché è importante? Perché cambia le aspettative della nostra audience la quale da per scontata l’integrazione di prodotti e servizi in un’unica esperienza. Inoltre perché non possiamo più cercare di capire l’individuo-donatore senza comprenderne anche la collettività a cui si sente di appartenere.

Fundraising trasformato

Sequenze, non campagne. Il fundraising trasformato non pensa in termini di campagne, canali, creatività ma è focalizzato su nuovi asset:

  • esperienze minime
  • miglioramento continuo
  • ascolto delle audience

Una pianificazione fluttuante permette di cambiare direzione velocemente rimanendo fedeli a cultura, valori e narrazioni grazie a un presidio continuo delle istanze delle audience e a una rete di contenuti connessi tra loro. Un approccio iterativo che, attraverso l’analisi continua, permette di capire cosa funziona e cosa no, dove si è, quali sono i bisogni contingenti della domanda esplicita, come questa si comporta e come stimolare la domanda latente.

Iterazioni che si susseguono senza dover attendere il prossimo mese o trimestre (come previsto dal piano di fundraising) prima di provare la validità degli assunti trasformati in esperienza.

Dati individuali, situazionali e circostanziali rendono possibile una nuova impostazione metodologica, raccontano di condotte umane apparentemente differenti, ma riconducibili a un numero finito di comportamenti. Non un razionale e prevedibile susseguirsi di azioni raffigurabili in articolati percorsi di donazione, ma risposte situazionali a stimoli disponibili, che si concludono con poco più di una reazione all’azione proposta e, se efficaci, con un avvicinamento alla donazione.

Dovranno essere sviluppati come contenuti “passanti e finalizzati”. Passanti perché il contenuto proposto dalla marca deve essere “un meccanismo di transito da un punto all’altro della sequenza esperenziale”. Finalizzati perché dirigeranno al prossimo contenuto in un percorso narrativo che, nel rispetto dei bisogni del fruitore e del grado di maturità della sua decisione di donazione, lo avvicinano al momento della transazione.

Se consideriamo l’approccio irrazionale alla donazione, pertanto frammentato e imprevedibile, il ruolo dei contenuti e la sempre minor sostenibilità delle campagne, non si può che valutare come unica opzione un presidio permanente del brand che si renda disponibile e propositivo, raggruppando contenuti che generano esperienze minime.

Leggi e rileggi il libro di Marco Cordioli: La via del marketing per la trasformazione digitale ti stupirà.

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