Razzismo e social network, responsabilità Onlus

Razzismo e social network, responsabilità Onlus

Chiaramente non sono i social network che influenzano l’opinione comune, sono le persone che li utilizzano che dovrebbero avere più responsbilità e coscienza prima di condividere una notizia.

Nella sua definizione più semplice, per razzismo si intende l’idea che la specie umana possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro. (wikipedia)

Google+, Twitter, ma soprattutto Facebooksono i principali vettori di siti e blog pseudo informativi con l’obiettivo di rilanciare notizie su crimini presunti o reali commessi da immigrati il tutto condito con un pizzico di retorica identitaria, nazionalistica e populismo.

«La crisi economica farà aumentare gli episodi di razzismo e xenofobia, e perciò i politici devono stare bene attenti a non usare le fasce più deboli come capri espiatori dei problemi sociali». Questa affermazione arriva dai tre principali organi di difesa dei diritti umani in Europa: la Fra(Agenzia europea per i diritti fondamentali), l′Odihr (Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, dell′Osce) ed Ecri (Commissione europea contro il razzismo e l′intolleranza, collegata al Consiglio d′Europa).

Uno dei punti forti di internet è sempre stata la sua capacità di diffondere rapidamente e senza blocchi qualsiasi tipo di informazione. In questo contesto, però, la mancanza di un controllo sulle informazioni veicolate tramite i social network ha reso più facile, da parte di malintenzionati, la diffusione di contenuti che – quando non lo sono dichiaratamente – incitano al razzismo.

Nonostante spesso si tratti di tentativi maldestri, la scarsa propensione, da parte degli utenti, al controllo e alla verifica dell’attendibilità delle notizie riportate in rete ostacola qualsiasi processo di integrazione del diverso e  giustifica comportamenti e dichiarazioni razziste.

Io non sono razzista, ma …” quante volte avete letto questa frase tra i commenti di qualche post su Facebook, o su Twitter ?

Il problema, infatti, è che gli effetti negativi di questa tendenza  negli ultimi anni sono stati amplificati dalla popolarità dei social network, che non hanno solamente cambiato enormemente il modo di informare, ma sono anche diventati il bacino di raccolta di tutto il malessere e il malcontento della maggioranza della popolazione.

L’unione di queste due tendenze ha favorito questo processo di giustificazione del razzismo, soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione. Questo problema, però, non  è risolvibile tramite la sola moderazione dei contenuti online. Infatti, limitarsi a rimuovere e cancellare il commento razzista,  è sempre più spesso percepito come un atto di censura da parte di un gruppo di “benpensanti” e non offre alcuna possibilità di educare e ridurre le dimensioni di questo fenomeno.

E le Onlus? Qual è il loro ruolo in questo contesto? 
Potrebbero essere il mezzo per combattere il dilagare del razzismo online?

La risposta potrebbe essere affermativa, ma prima sarebbe necessario intervenire e cambiare l’attuale organizzazione delle non profit nei social network.

Soprattutto negli ultimi tempi, le associazioni non profit  sono diventate oggetto  di critiche e (ancor più spesso) di veri e propri attacchi motivati dall’accusa non solo di essere dalla parte degli immigrati, ma anche di aver voltato le spalle ai propri connazionali. Potete verificarlo voi stessi aprendo la pagina di una qualsiasi onlus su Facebook. Spesso  anche la foto o l’aggiornamento di status più innocente finisce per dar luogo a commenti  che sono il palese risultato di un malessere covato da anni e sempre più difficile da contenere.

  • “Non voglio più ricevere vostri messaggi con richieste di soldi…avete rotto le scatole….altro che sud del mondo la povertà ora c è in italia …”

  • No no….voi inviate messaggi in posta privata agli account…ouuuuu avete rotto le scatole..NOI SIAMO POVERI e vogliamo pensare alle nostre povertà visto che le associazioni ONLUS se ne fregano degli italiani…e poi non vi bastano i soldi che percepite dallo stato cioè da noi???? già perché onlus non significa volontariato ma abbondantemente pagato dallo stato”

  • PENSATE SOLO AGLI ITALIANI ALMENO PER 10 ANNI,POI AIUTIAMO SE POSSIAMO!!!

  • Prima dobbiamo sfamare il POPOLO ITALIANO ridotto alla fame per la chiusura di migliaia di fabbriche…..LO VOLETE CAPIREEEEEE??????????

Sappiamo bene come sin dalla loro nascita i social network siano diventati un importante strumento per analizzare l’umore generale di qualsiasi fascia della popolazione e post come questo offre la possibilità di riflettere sul rapporto donatori e onlus.

Chiediamoci, quindi, come è possibile migliorare questa condizione?

Quello che forse il non profit potrebbe rimproverarsi è il fatto che, per quanto irrinunciabili, le necessità di raccolte fondi e campagne marketing hanno un po’ minato il rapporto umano e la capacità di dialogo con i sostenitori.

Quello che è venuto a mancare è la capacità di dialogare, raccontare e fidelizzare i propri donatori ed è paradossale che questo sia avvenuto proprio negli anni in cui i social network sono entrati nella vita di tutti noi collegandoci a vicenda in una sorta di rete le cui maglie sono in continua espansione.

Fare la differenza“, “un piccolo contributo pari al costo di un caffè” e tante altre espressioni simili sono ormai diventate formule che si ritrovano in quasi ogni campagna, ma che a poco a poco stanno perdendo il loro significato e, di conseguenza, la loro efficacia comunicativa.

Se ogni intervento trova lo spiraglio per unacall-to-action agli utenti, siamo davvero autorizzati a sorprenderci quando le reazioni ottenute non sono “collaborative“?

I social network, Facebook e Twitter in primis, potrebberò aiutarci a porvi rimedio coltivando il rapporto con i  sostenitori e facendo sì che le associazioni umanitarie riscoprano il loro “lato umano”.

In futuro sarà sempre più importante investire in una comunicazione che non si basi solo sulle leggi di marketing, ma soprattutto, che sviluppi la capacità di instaurare un sano rapporto e un vero dialogo privi di secondi fini diversi dall’intento di “informare” e”raccontare”.

Prima di aiutare gli altri, dobbiamo pensare a noi stessi.

Questo si legge ovunque, ma la verità è che in un mondo interconnesso in cui le nostre azioni hanno ripercussioni sulle vite di persone a centinaia, migliaia di chilometri di distanza, “noi stessi” SIAMO “gli altri”.  (Facebook post di F.A.)

Autori: Mattia Dell’Era, Andrea Bernardi

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